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Dal 2017 al 2019 Matteo Zauli, direttore del Museo Carlo Zauli di Faenza, ha curato alcuni progetti di residenza artistica per la Fondazione Museo Montelupo, portando un grande contributo allo sviluppo di percorsi di integrazione tra le competenze ceramiche del territorio e l’arte contemporanea.

Progetti, mostre ed esperienze, Materia Prima, Doppio Circuito, About a Vase, Il Colore Interiore e le edizioni del Ceramic Performance Festival per Cèramica, che ricorderemo negli articoli delle prossime settimane, dando voce ai protagonisti.

In questo contributo al blog Dis|chiuso, nel ripercorrere la sua esperienza montelupina, Zauli evidenzia un aspetto che ha sempre guidato la progettualità dei Cantieri d’Arte di Montelupo, ovvero l’investimento in accoglienza, il clima di scambio e il confronto umano e professionale da cui, facendo leva sulle grandi capacità degli artigiani, genera l’eredità che ogni progetto è stato in grado di lasciare al territorio e ai protagonisti della ceramica.

Magie e alchimie di Montelupo.

Mi è capitato recentemente, rispondendo alle domande di un’intervista, di riflettere sul senso del mio lavoro e di parlare con entusiasmo delle mie esperienze montelupine. Passano i mesi, ma non accenna a svanire il senso di gratitudine verso questo luogo e la consapevolezza di aver fatto parte di un progetto che ha tracciato la propria strada in profondità, ben sotto la superficie, tra le radici del fare oggetti d’arte, in ambito oggettuale o scultoreo.

Forse ci siamo ispirati alla storia del posto quando abbiamo deciso di scavare, di cercare in profondità.  Di fare un lavoro, cioè, che non avesse come primo obbiettivo quello di produrre soltanto opere di artisti importanti, ma di provare ad approfondire il contatto tra artisti e artigiani, cercando molle di rinnovamento tra linguaggi espressivi lontani dai materiali ceramici, da sguardi tecnici, dalla tradizione del luogo, dallo stato delle cose.

Ed è così che è accaduto qualcosa di speciale. La cosa che solitamente non accade in questo tipo di progetti è trovare ceramisti di esperienza, già immersi nel quotidiano ritmo produttivo, disposti a fermarsi a pensare. Disponibili a mettersi in gioco, a raccogliere sfide anche astratte che artisti venuti da un altro mondo proponevano di intraprendere per le proprie opere e per quelle degli stessi ceramisti che li ospitavano. Disponibili quindi a mettere in campo entusiasmo, energia, tempo e risorse. Ceramisti affascinati dalla novità delle proprie forme che, germogliate da questa serie di incontri, fiorivano in modo del tutto inaspettato.

Da molto tempo notavo che c’era un limite nel mio lavoro di residenza d’artista realizzato a Faenza. C’erano incontri, è vero, tra ceramisti ed artisti di diversa estrazione, ma erano incontri dai quali gli attori uscivano di scena nello stesso identico ruolo che avevano prima di entrarvi. I ceramisti non uscivano mai veramente da una dinamica mentale legata alla committenza di un lavoro di altri e una vera e propria osmosi, di fatto, era rimasta lontana.

A Montelupo invece l’alchimia si è compiuta, e ne restano tracce. Di queste, voglio citare quattro opere tra quelle realizzate dai molti attori coinvolti in questi processi.

Di terra in terra di Patrizio Bartoloni (ciotola a tornio, smalto nero opaco e cristallina lucida, zolle delle colline di Montelupo con cristalline e smalti autoprodotti), un lavoro del 2019 nel quale l’autore opera una sintesi tra raffinatezza, preziosità artigianale, legame con il proprio territorio e richiami arcaici, simboleggiati dai grumi di terra presi dall’argine dell’Arno, a pochi metri dalla propria bottega e dal centro storico cittadino.

La finestra di Sergio Pilastri (6 lastre di maiolica dipinte con smalti metalizzati), sempre del 2019, un pannello ceramico nel quale la ricchezza pittorica di cui l’autore è capace si concentra in un rapporto dialettico tra decorazione e monocromatismo, quasi a citare le due metà della mela nella quale si è svolta tutta la storia della ceramica e che vede un dettaglio lussureggiante e solare contrapporsi all’oscurità della stanza; un’oscurità tutt’altro che sorda, ma preziosa, cangiante, ricca di carattere e profondità.

Il Planetario di Ivana Antonini (vaso in maiolica con smalto al selenio), un vaso scultura realizzato nel 2017, durante Materia Montelupo, nel quale tutta la dirompente energia del coloratissimo mondo creativo dell’autrice si armonizza ad una complessa costruzione scultorea, quasi ad evocare in modo molto personale le storiche influenze che la dinamica spaziale ha esercitato nell’arte contemporanea a partire dagli anni sessanta.

Artediddio di Luca Vanni, del 2018-19, nel quale un incidente di produzione si trasforma in una potente scultura dai toni al tempo stesso antropologici e materici, traccia dell’energia che l’incontro tra materia, fuoco, e volontà dell’uomo può scatenare, dando vita ad una forma fortemente espressiva che il caso ha definito ma che l’autore ha avuto il merito di accettare e far propria.

Matteo Zauli