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Nella mia mente, più ancora che per altri personaggi, l’immagine di Eugenio Taccini è disegnata con due inchiostri di diverso colore, uno per la persona, l’altro per il ceramista. E sono entrambi ricordi molto cari, anche perché hanno il profumo della mia giovinezza.
So bene che un ritratto, anche se a memoria, dovrebbe iniziare da alcuni dati biografici obbligati ma lascio ad altri questo fondamentale compito.
“Del Taccini” ne devo parlare in altro modo. A mia discolpa c’è da dire che la storia di questo maestro non è ancora entrata nell’Archivio della Memoria del Centro Ceramico Sperimentale. Vediamo però se alla fine ne uscirà comunque un bozzetto riconoscibile e “parlante”.
Eugenio, ovunque abbia vissuto i suoi giorni – in fabbrica, in famiglia, nella sala da ballo, nel partito, nell’Associazione Artigiani, in Comune, in bicicletta, a giro per il mondo come ambasciatore dell’arte ceramica di Montelupo – è stato un personaggio della commedia dell’arte, una maschera con il dono di far coincidere l’attore-produttore con il personaggio-prodotto. Guardate i suoi “Arlecchini”, ma anche gli oggetti e i soggetti degli ambienti del suo figurato, sono esattamente come la sua mente vede la realtà. Tra i nostri artigiani-artisti della ceramica è un caso veramente unico di identificazione tra artista, opere e linguaggio. Nel lungo periodo degli “Arlecchini” Eugenio si è sempre distinto perché i suoi soggetti – uomini, animali, cose e paesaggi – assomigliavano a lui. Che differenza c’era tra i loro copricapi e la sua copiosa capigliatura spesso lasciata in libertà? E il suo modo ampio e sciolto anche se rapido e imprevedibile di muovere le braccia soprattutto se un po’ eccitato non assomigliano al gesto libero, sciolto e apparentemente casuale di come si fa volare il pennello quando si dipingono i figurati di Montelupo? E i discutibili – anatomicamente parlando – cavalli del figurato montelupino erano davvero molto diversi dalla sua discutibile Citroën tenuta insieme dal nastro adesivo, all’epoca new entry nella nostra quotidianità? Lo Scotch®, il nastro adesivo per antonomasia, diventò lo strumento principe della sua innata ingegnosità artigiana per risolvere ogni problema che non fosse legato alla ceramica. E, credetemi, la 3M avrebbe fatto bene a studiare il caso; ne sarebbe uscita una poderosa campagna di comunicazione pubblicitaria, tante e incredibili erano le sue “trovate”. La sua Dyane era piena di “anime vuote” dei rotoli finiti.
I suoi “Arlecchini” non sono mai stati copie degli originali tardo cinquecenteschi. Altri, molto meglio di lui, hanno fatto copie in grado anche di ingannare antiquari e collezionisti che pure Eugenio conosceva bene, a partire dal primo valorizzatore della ceramica di Montelupo – anche se definito solo “contado di Firenze” – il grande Galeazzo Cora al quale, da “ragazzaccio” sul Castello, vendeva i cocci – anche quelli degli “Arlecchini”- che affioravano “a corbelli” sotto le verdure negli orti castellani.
In quegli orti, appunto, gli “Arlecchini” incontrati da ragazzino diventarono una multicolore “lente a contatto” attraverso la quale, da allora in poi, vide il mondo, la gente, le cose, l’ambiente, la vita. Ecco perché l’Arlecchinese diventò il suo personale idioma narrativo.
I boccali, le tazzine da caffè e i posacenere per Christian Dior, i piatti, le basi lampada e via ceramicando altro non erano che le tele su cui dipingeva questo mondo interiore che aveva bisogno di non essere mai uguale e di volare con tratto veloce e spontaneo, non importa se infedele ad ogni canone storico ed estetico. Eugenio non ha mai fatto copie, è stato semmai un narratore di storie a fumetti in “Arlecchinese”. A lui, purtroppo, è mancato – finora – l’autore dei testi, delle storie, il narratore Goscinny che invece era stato il partner artistico di Uderzo, il padre-disegnatore di Asterix e Obelix. Già, altra coincidenza, l’abbondante ciuffo biondo del Taccini era uguale a quello di Asterix!
Devo dire che anche ad almeno un altro grande ceramista contemporaneo di Montelupo è mancato un partner narratore che gli proponesse storie da ceramicare.
Che dire poi del lungo periodo pinocchiesco e infine ciclistico? Guardate come cammina, un po’ anchilosato, a scatti morbidi, come un Pinocchio evoluto, già nella fase di passaggio dal profumato legno di pino alla elastica ma meno duratura carne umana.
Disegnatelo come sta in bicicletta e farete un’illustrazione originale per la prossima edizione del Collodi.
È sempre lui, Pinocchio che non sopporta le regole e le prepotenze, Pinocchio che viaggia e che cerca la vita fuori dalla realtà della sua casa, della bottega del babbo, che fa tanti errori e poi li paga, Pinocchio che crede in cose che poi si rivelano inganni, ideali bellissimi che poi si trasformano in cose orribili. Ma questa è un po’ la storia di molti di noi, simili a Pinocchio, simili “al Taccini”.
Una personalità complessa, allegro ma anche terribilmente serio, amichevole ma anche tranchant, capace di passare da un registro all’altro con rapidità e disarmante naturalezza. Analisi profonde e articolate che finiscono molto alla svelta in sintesi repentine, nette e senza ambiguità, senza averci dato modo di arrivare preparati a quelle conclusioni. Eugenio argomenta con la stessa rapidità con cui agisce un commando in un blitz di guerra.
Certo, per essere stato un militante di partito, un dirigente politico in un’associazione imprenditoriale, un consigliere comunale, possiede anche la capacità di arrotondare gli spigoli, altrimenti definita “capacità di mediazione”. Ma questo appartiene più alla necessità che alla vocazione, più alla forma che alla sostanza. Lo rivelano prima che le parole la sua straordinaria mimica della faccia e del corpo quando lui cerca di mascherare il suo pensiero prima che esca, irrimediabilmente, dalla bocca ma che mostrano la sofferenza della tortura che in quel momento sta infliggendo a sé stesso.
Acerrimo nemico dell’ordine, dell’esattezza e della rigida precisione, ha sempre corso in “Formula zero” o meglio, in “Zero formule”, tanto che lui stesso con riuscirebbe a dirvi la composizione di una delle infinite e sempre nuove miscele di smalti, colori, cristalline, fondenti, pigmenti e chissà cos’altro, che usa per realizzare i magnifici effetti delle superfici a spessore sulle quali la luce può giocare libera sulle dune cangianti, mai uguali, come un’aurora boreale. Non a caso Van Gogh!
Il collante di tutte le facce umane, artistiche, sociali e professionali di questo uomo-maschera-artista-ceramista è la sua libertà.
Come poteva, così costruito, questo buon toscanaccio, sopportare una “società”?
“Le società stanno bene in dispari, e tre son troppi”, figuriamoci in quattro! Come poteva un cervello ribollente come il suo sottostare alla dura routine della fabbrica? D’altro canto, come poteva una “ditta”,ingranaggio obbediente dell’inesorabile orologio dell’economia di mercato, ammortizzare le irregolarità di una rotellina ribelle? Come se in un orologio un ingranaggio decidesse di prendersi una pausa o di girare all’incontro o una molla volesse sgranchirsi le spirali un po’ intorpidite. Questo, o per lo meno, anche questo è Eugenio Taccini. Ve l’ho raccontato perché non si può comprendere l’artista-ceramista e la sua opera se non si conosce, almeno un po’, l’uomo.
Ho chiesto a Eugenio di cimentarsi – oggi – con una nuova impresa, quella della consapevolezza del suo linguaggio narrativo al fine di svilupparlo verso nuove estensioni, di spiegarlo, di documentarlo e di trasmetterlo agli allievi nella nostra scuola di ceramica che vuole essere “La Corale dei Ceramisti di Montelupo”. Maestri che cantano in Ceramichese, la lingua più diffusa e antica della terra.
Ti aspettiamo alla scuola, Eugenio, come Testimone del nostro tempo e come Maestro di linguaggio e di espressione.
Paolo Pinelli